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23-09-2006        Carta
"Le societa’ repressive reprimono tutto, quindi gli uomini possono fare tutto. Le societa’ permissive permettono qualcosa e si puo’ fare solo quel qualcosa…". Questo pensiero di Pasolini (asse portante del bellissimo film di Bertolucci "Pasolini prossimo nostro" presentato all’ultima Mostra di Venezia) mi ha accompagnato durante le ferie d’agosto che ho voluto trascorrere nella capitale cubana, per cercare di condividere con gli abitanti lo strano periodo di limbo seguito al ricovero d’emergenza del Lider Maximo. Ospite di un amico italiano che lavora nel progetto di cooperazione "L’Habana Ecopolis", per la prima volta mi sono imposto sedentarietà. Viaggi e visite ridotte al minimo, perchè la speranza di capire un po’ meglio un luogo non ha chance se non rispetta i tempi del dialogo e della convivenza quotidiana con chi in quei luoghi abita.

Il mio Virgilio nel purgatorio cubano
Quando il mio viaggio aereo (il 570esimo!) arriva, a pochi giorni dalle celebrazioni dell’ottantesimo compleanno di Fidel, il comandante è già ‘scomparso’ dalla scena pubblica, affidando le funzioni al fratello Raul. Eppure la sua presenza aleggia ovunque, nell’unico paese al mondo dove l’arte della pubblicità non esiste nei media e nello spazio pubblico, fatta eccezione per la ‘propaganda’ politica col suo inimitabile stile un pò retrò e le sue ambizioni pedagogiche. Decido che – in tutto il viaggio – il mio occhio si farà guidare dagli stimoli portati da quegli enormi cartelloni che (senza concorrenza di altre merci) inondano con i loro slogan il quotidiano dei passanti. A guardarli, si mescolano sentimenti difformi: curiosità, ammirazione per la creatività di alcuni, rabbia per le menzogne di altri. Ma – soprattutto – un diffuso senso di nostalgia, una tenerezza per quel ‘mondo che non c’è più’ e sta racchiuso dentro simulacri che testimoniano del passaggio dagli ideali alle ideologie, fino alla vuota reiterazione di slogan che paiono tentare di autoconvincersi di ciò che scrivono.
"Andiamo bene", "Altri 80 anni come questi", "Gloria ai 5 eroi della democrazia prigionieri degli Yankis". Le scritte più attuali convivono con residuati bellici ("Morte a Batista") e fanno capolino dai luoghi più inaspettati (le facciata del lussuoso Hotel Nacional), scorrendo veloci ai lati dell’auto che mi porta nel cuore del Vedado, il quartiere ‘chic’ dell’Avana. Mi era venuto da definirlo così 11 anni fa, quando venni per seguire il Festival del Cinema Latino Americano, con il solo obiettivo di stare tra la folla gioiosa dei cinema cubani, e di partecipare alla cena di chiusura offerta agli ospiti stranieri nientemeno che da "Lui"...Allora, la mia guida furono le Piccole Sorelle di Padre De Foucault, che stavolta – purtroppo – non sono riuscito a ritrovare.
Oggi, il termine "chic" oggi mi sembra più che mai opportuno, anche se – verso il mare – molte delle vecchie ville novecentesche suddivise in piccole abitazioni plurifamiliari crollano agli stessi ritmi vertiginosi con cyui si costruiscono nuovi hotel sulla spiaggia di Varadero. C’è qualcosa, nel Vedado come in Miramar e Playa (i quartieri delle ambasciate), che ti dà la netta sensazione che il fasto sociale di quelle zone non appartenga solo al passato. La sensazione che lì abiti un’oligarchia, qualcuno che – tra gli uguali – sia più uguale degli altri (espressione che non amo, ma che qui – per la prima volta – trovo confacente)...
È parlando con la famiglia che mi ospita che la mia sensazione si rafforza. È una famiglia colta, di giovani cineasti, con una figlia che manda aiuti dall’Europa. Dalle alte terrazze, la vista dell’Avana a 360ª; all’interno, arredamento minimalista ma elegante, opere d’arte moderna e poster di cinema. Sulla porta gli adesivi che segnalano il passaggio del "Censimento 2002" e il permesso di funzionare come centro d’ospitalità. Il padre Raul – ex traduttore per ditte della Germania dell’Est – mi racconta di sentirsi molto fortunato "Io ho viaggiato, seppur solo in paesi di area sovietica; ho imparato le lingue, e mi è stata assegnata una casa che oggi è un’enorme capitale".

Un regime binario
È il ‘doppio regime’ il segreto della transizione. Che non è ancora transizione politica, ma certo lo è negli aspetti economici e sociali. "Dopo la crisi degli anni ’90 seguita al crollo del Muro e degli aiuti sovietici – riflette Boris, l’ascensorista di un hotel laureato in economia – si è rafforzata l’esistenza di due circuiti economici paralleli, simboleggiati dalla doppia moneta: il dollaro per gli stranieri e il peso per i cubani. La recente creazione del CUC (il peso convertibile, che vale 24 pesos cubani e poco meno di 1 euro, ma ben più di 1 dollaro) ha fatto incrociare i due percorsi. E li ha fatti incontrare a svantaggio di chi, in questi anni, non si è trovato in mano quei ‘doni’ che oggi permettono ad alcuni di star meglio, e ad altri cittadini di patire la fame". Quali doni? chiedo. "Ad esempio case grandi e collocate nei centri strategici del turismo, o lavori a contatto con gli stranieri (i taxi che si pagano solo in CUC, le boutiques degli alberghi, alcuni bar e ristoranti). Chi fa fruttare i talenti puo’ iniziare una piccola scalata sociale". Boris mi lascia intendere che molti di questi ‘doni’ sono frutto di contrattazioni con i piani medio-alti delle gerarchie politiche, di piccole subornazioni per avere permessi. Penso allo stato-burocrazia come "ufficializzazione della mediocrità" descritto nei libri di Alexis Diaz-Pimienta, uno scrittore critico i cui libri però non sono stati censurati a Cuba. In "Prigioniero dell’acqua", Pimienta descrive la parabola di un balsero che raggiunge Miami, dopo aver descritto tutta la sua vita sullo sfondo delle trasformazioni economiche di Cuba.
Mi confida una libraia: "Se Pimienta si può vendere, è perchè oltre a uno sguardo critico sul quotidiano della sopravvivenza nella Rivoluzione, descrive lo spaesamento a Miami, e presenta criticamente il personaggio di Enildo: che fugge quando la sua scalata sociale trova un ostacolo, quando il suo arrivismo è frustrato, mentre prima si è destreggiato conquistandosi spazi di rispettabilità sociale"...I suoi libri descrivono con fedeltà (seppur con un linguaggio ipersensuale a volte irritante) il "regime del doppio binario monetario" che è il paradiso dove si sviluppa il mercato nero e la creatività dei cubani. "A dispetto dell’embargo, si vende e si trova quasi tutto: la tua disponibilità ad aspettare ha peròun prezzo, corrispondente ai tempi di attesa" – mi racconta Lorenzo, ingegnere chimico che vende fiori in una delle fierucole di quartiere che da qualche hanno hanno aperto nuovi spazi di vendita dei prodotti agricoli in città. "Ma il regime del doppio binario crea un paradosso. Che questo non sembra più uno stato socialista. Non siamo più tutti uguali. Abbiamo gli stessi diritti formali, ma nella prassi si stanno creando delle classi. Senza contare quanto è odioso sentire che uno straniero ha più diritti di noi cubani: di solito non avviene l’inverso?". La collega di bancarella, Lucia (laureata in chimica) va oltre, facendomi notare che la maggioranza dei mendicanti, come delle gineteras e dei pingueiros che si vendono ai turisti per qualche regalino, è di pelle nera. "C’è una frase volgare e dura a Cuba: non la ucciderei perchè è una puttana ma perchè è una porca. Si riferisce alla questione razziale. Vuol dire che si può accettare che uno, per migliorare economicamente, venda il suo corpo, ma non che per questo rimescoli i diritti acquisiti. Nella società attuale è rimasto un sentimento pre-rivoluzionario di non uguaglianza, che riemerge spesso, con venature razziste. E chi ha più possibilità spesso ha la pelle più chiara". Mi viene da pensare alle letture su Cuba fatte in Europa, dove si sottolinea come i martiri della Rivoluzione siano spesso afrodiscendenti, mentre i dirigenti di pelle scura nel partito e nelle istituzioni sono pochi. Anche se – formalmente – la parità dei diritti è sancita con forza.
Catalina, studentessa di legge che sposerà la settimana prossima un Italiano, mi dice che "il grande business del momento è il diritto privato...Nelle facoltà di legge quasi tutti lo scelgono. Perchè oggi stanno rinascendo varie forme di proprietà, modalità di riscatto della casa, ecc...Anche se tutte le grosse imprese (dall’industria al turismo) restano monopoli o, al massimo, imprese a capitale misto statale e straniero".
Ora capisco meglio perchè l’ascensorista-economista mi ha detto "Ormai possiamo definirci un paese proto-capitalista, dove si vanno formando classi di benessere, seppur resiste ancora uno forte Welfare State". Il pensiero non è poi così diverso da quello di Albert, grande difensore del regime rivoluzionario che è stato al Forum Sociale di Porto Alegre 2005. "Forse è naturale che ci apriamo gradualmente. È questa la transizione di cui ci chiedono all’estero? Se è così non me ne vergogno, perchè può evitarci un cambio brusco, se le persone che ci governano dovessero un giorno sparire senza lasciare una solida classe politica a rimpiazzarle con forza e ideali". Albert mi fa notare che la gente non parla mai di socialismo o comunismo, dice semplicemente "la Rivoluzione". Le attribuisce un valore neutro, di punto di flesso di una storia politica, ma ormai con poche connotazioni ideologiche, "forse perchè le cose stanno cambiando gradualmente e in pochi riescono a inquadrare queste trasformazioni in un modello con un nome".

Un clima rarefatto.
Una cosa è certa per me. Rispetto a 11 anni fa la gente parla molto di più e a cuore aperto. Anche se – prima – è necessario costruire un clima di fiducia reciproca.
Inoltre, la gente conosce, molto più di quanto noi crediamo. È vero, i giornali sono pochi, controllati e laconici; l’accesso a Internet nelle case è raro; se sei cubano negli Internet Point ti vengono presi gli estremi dei documenti; pochi hanno il telefono e pochissimi il cellulare (le chiamate si pagano in entrata e in uscita: le magie del monopolio!). Ma sono rallentamenti, non riescono a tradursi in proibizioni vere quando la creatività è all’opera. A differenza che in Cina, nei motori di ricerca la parola "democrazia" non è bandita. Grazie al fatto che gli stranieri possono avere più contratti telefonici, oggi molti cubani hanno cellulari in subappalto e accedono al Web costituento gruppi informali di amici.
Da fuori, il panorama sembra peggiore. Se stai dentro, ti accorgi – ad esempio – che le persecuzioni contro le ‘dissidenze sessuali’ oggi sono appena nei racconti di coloro che il regime bolla come "antisociali" o "controrivoluzionari". A La Habana si tengono settimanalmente feste informali di gruppi gay e lesbici, e lo spettacolo "Mariconchi" ("Ricchionate", potremmo tradurlo) da oltre un anno va in scena nella cornice Art Decò del Cine America con enorme successo, anche di famiglie e di critica. Mi dice Julio, che ha lavorato nel cast tecnico del film "Benny", enorme successo di pubblico (premiato al festival di Locarno): "Indubbiamente attraverso l’arte stanno passando grossi cambiamenti. La cubana resta una cultura machista, ma sul piano dei diritti le cose migliorano velocemente, da quando "Fresa y Chocolate" nel 1994 si impose all’estero". Nell’arte ci sentiamo tutti più liberi, e l’umorismo fa passare molte cose". Il segreto di "Mariconchi", infatti, sta nella sottile ironia con cui tante critiche all’attuale politica cubana passano al grande pubblico. Per questo mi han stupito ed emozionato la critica sociale e le risate liberatorie del pubblico...
Mi accorgo che di tutto questo fuori filtra poco. Le telefonate dei miei familiari e la lettura dei nostri giornali su Internet mi disegnano un panorama che dall’Avana non vedo. Certo, c’è qualche poliziotto in più agli angoli delle strade; qualche riunione in più dei Comitati di Difesa della Rivoluzione nei quartieri (uno è sotto casa mia). Ma per il resto c’è un clima di attesa rarefatto: non vi è tensione palpabile. Tutt’al più, davanti al SINA (Ufficio degli Interessi Nordamericani), un monumento fatto di bandiere cubane impedisce la vista delle scritte luminose che gli statunitensi proiettano sulle pareti. I poliziotti – sul Malecon – ti impediscono di fermarti, per evitare di leggerle. Ma la scritta ripetuta è disarmante e sotto le aspettative: "In questo momento di incertezza per Cuba, l’unica certezza è che gli USA sostengono il popolo cubano e le sue famiglie nel difendere la necessità di un cambiamento". Piuttosto soft, direi. Non merita neppure lo spreco della Tribuna Antimperialista costruita davanti in tutta fretta, e la teoria di manifesti che maledicono Bush e il terrorista di Miami Luis Posada Carriles, il "nemico numero uno" della propaganda di Stato.
Le concentrazioni di poliziotti che vedo, servono semmai a disperdere la calca davanti ai cinema che proiettano la storia del musicista Benny Morè (in questo, il punto nª 13 del Programma Rivoluzionario del ’59 - "dare impulso al cinema nazionale" – ha funzionato!). Il Comunicato di Raul Castro riportato da tutte le agenzie internazionali sull’allerta massima per il rischio di un colpo di stato americano, pare più una misura di proganda esterna che un piano reale. O le cose sono state fatte così bene da essere impercettibili sul territorio.
Restano le vuote tribune montate per il Carnevale estivo (poi annullato) e i festeggiamenti del grande ottuagenario in vestaglia di seta, che fa capolino in TV, su Gramma e Joventude Rebelde, sorridente accanto a Chavez. Tutto annullato fino al 2 dicembre: mantenuto solo il concerto della vigilia, "Cantata per la patria", partecipato da tutti i maggiori artisti cubani di musica, cinema e teatro. Ma le impalcature restano. Come monito? O come supporto per le parate che accompagneranno il vertice dei Paesi non Allineati di metà settembre, di cui fervono i preparativi al Centro Congressi? Tutti pensano che in quella occasione "lui" (i cubani non lo nominano, ma preferiscono mimare il segno di una barba) si ripresenterà in pubblico in carne ed ossa...

C’è vita oltre la morte?
Mi è stato chiaro che pochi cubani erano preoccupati della malattia del Lider Maximo. "È imbattibile", "Si rigenera", "È giovane dentro e perciò durerà ancora molto", "È già scampato ad oltre 640 attentati documentati nel Museo del Ministero dell’Interno’. Un commento mi ha colpito positivamente: "Chi è stato cosi’ vicino alla morte non può che migliorare, e guidare il paese in futuro con maggiore umanità", mi ha detto Mina, l’autista di una guagua, uno dei bus che i cubani attendono eternamente in lunghe e ordinate file che danno prova dell’interminabile pazienza di quel popolo...
"Se venissero risolti il problema della fame e dei trasporti, saremmo un paese perfetto" dice Mina. Le sembra poco? "Oggi entriamo a lavoro ore prima di iniziare il vero lavoro. Perchè cercare un mezzo per andare al lavoro, per i più è un lavoro esso stesso. Come per le famiglie in Africa trovare l’acqua: non esce dal rubinetto, va cercata con lunghe marce e dispendio di energie" mi ha confidato Jorge, che fa il traduttore di italiano e mi è venuto incontro nella visita ad un Sanatorio dell’epoca di Batista sui monti presso Trinidad, oggi trasformato in centro di riabilitazione totale per lungo degenti. "Io che viaggio spesso in Europa, devo ammettere che ci sono cose vere tra quelle che il governo sottolinea: ad esempio il funzionamento dell’assistenza sanitaria. Nel momento dell’estremo bisogno lo Stato non ti abbandona. Io sono povero. In qualsiasi altro paese sarei stato lasciato morire; eppure oggi mi sono ripreso quasi all’80% grazie a medici che parevano entrare dentro di me e vivere con me la riabilitazione". Jorge è stato paralizzato 2 anni – quasi un vegetale – per una nevropatia congenita, ed oggi dice "Spesso si pensa che chi esce da Cuba poi non voglia tornare; ma molti fanno il percorso inverso. Dopo aver bramato di fuggire, capiscono anche cosa perderebbero a non tornare".
Tong, discendente della grande ondata cinese che ha dato forma al quartiere oggi fantasma di Chinatown, pensa lo stesso. È musicista in una grossa band cubana ed ha fatto tournee in oltre 50 paesi. "Io apprezzo Cuba di più ora che posso confrontarla con l’esterno. Un pò come il Marco Polo di Calvino, è viaggiando fuori che imparo a conoscere la mia terra. Ma forse, continuo a viverci perchè so che è un trampolino da cui continuerò a partire per tornare. E magari è proprio la libertà di potermi muovere che mi dà la forza di sopportare le difficoltà pratiche ed alcune restrizioni di liberta’. Tra queste, quella che mi pesa di più è non poter andare in giro liberamente con gli amici stranieri che voglio. Dover restringere le relazioni in pubblico, perchè in pochi hanno il diritto di frequentare stranieri. Anche se ci lavorano insieme".
Anche a me, straniero e fortunato, questa restrizione è parsa la più dura. Un giorno sono stato fermato dalla polizia con un amico di vecchia data. Ci hanno separato. Con lui si sono allontanati nella volante, dopo aver visto che si accompagnava ad uno straniero. Mi sono sentito colpevole, e tanto più perchè io sono stato trattato benissimo dagli agenti. Io. Lui, ora, riceverà la "lettera di avvertimento" tanto temuta. Le conseguenze? Nessuno le sa. È a questo che penso mentre viaggio verso la Francia. rileggendomi "Il grande fratello" di Orwell. Alla mente mi vengono espressioni come "controllo sociale" e "terrorismo psicologico". È questa libertà che si deve sacrificare, nell’illusione di mantenere vivo un modello politico, sfruttando la paura degli individui? Questo fatto mi mette in crisi, più ancora del disagio provato nel vedere la miseria nelle strade dell’Avana, quella miseria oscura (seppur portata con estrema dignità) che ti fa chiedere come è possibile che alla fine il socialismo produca effetti non dissimili da quelli di una ‘societa di mercato’, che del mercato ha interiorizzato i valori.
Luis, amico da cui accetto di separarmi ad ogni poliziotto mentre camminiamo insieme per la strada (per evitargli problemi), viene dalla campagna. È figlio di un sindaco, ma non ha avuto favoritismi. Laurato in chimica, oggi vende frutta per strada all’Avana. "In campagna i benefici della Rivoluzione sono ancora ben tangibili. Forse perche’ manca il confronto quotidiano con il turismo. E la gente e’ molto meno critica, più affezionata alla Rivoluzione. Io all’inizio non avevo il permesso per stare qui in città, e temevo ogni pattuglia che potesse chiedermi i documenti" (l’immagine mi richiama i divieti all’urbanesimo ai tempi del ventennio...). "Oggi sto bene, ma devo aver paura di avere amici stranieri. Mi pesa che manchino le libertà di circolazione e di amicizia. La considero una violazione di diritti umani fondamentali, più ancora della censura sul pensiero politico. Perchè pone i percorsi di vita e le relazioni su un piano di programmazione burocratica, di imposizione dall’alto". La domanda che Luis mi rivolge è di quelle epocali: "Non credi che in tal modo vadano a farsi fottere tutti i benefici della grande educazione che tutti ricevono, e che è una gloria cubana trasferita ad altri paesi attraverso l’impegno internazionalista? Se ciò a cui ci formano resta sterile, non può giovarsi del confronto, anche di quello informale che viene dal parlare con degli amici o leggere dei giornali o dei libri fatti altrove? Io mi sento in prigione. Le difficoltà materiali si possono superare con la creatività e l’intraprendenza, ma questo no".

Il terreno dei paradossi è un pantano. Lo penso, mentre mi reco in taxi a visitare i famosi orti urbani idroponici tra gli orribili (ma indispensabili) condomini costruiti dalle Microbrigadas, e poi il cimitero di Colòn, davanti al quale un enorme manifesto recita "Rivoluzione è uguaglianza e libertà piena". Mi suona ironico, se ripenso ad un bel testo di Boaventura de Sousa Santos (O futuro da democracia) apparso su "Visão" questo mese, dove si sottolineavano come necessarie precondizioni di una democrazia ‘partecipabile’: la garanzia della sopravvivenza, l’assenza di minacce e la trasparenza dell’informazione. Cuba mi è apparso un paese sostanzialmente sicuro, dove ho potuto visitare zone inaccessibili in qualunque altro paese latinoamericano. Ma le altre due condizioni? La famosa ‘libreta’ (bersaglio di feroci ironie tra i cittadini, specie negli spettacoli teatrali e televisivi) è diventata insufficiente anche a garantire la sopravvivenza. Quanto all’informazione....Mi viene in mente che, unendo le 3 condizioni, Cuba è in ampia compagnia in un pianeta in-democratico.
Non posso fare a meno di gioire del fatto che – almeno - il tanto agognato timbro sul passaporto, che ho dovuto insistentemente chiedere (per rispetto di chi viaggia verso gli USA non lo mettono più), si limiti alla dicitura "Repubblica di Cuba" e non riporti la parola ‘democratica’...

Il cimitero di Colòn è l’ultima immagine ‘forte’ che mi porto dietro dell’Avana (la prima erano stati gli avvoltoi malauguranti che vivono sulla torre Martì di Plaza de la Revolucion). Ed è un’immagine paradossalmente consolatoria. Unico luogo dove non è mai stata abolita la proprietà privata (e oggi l’unico dove sono ammesse compravendite tra privati, seppur sotto l’occhio vigile di un pool di avvocati statali), il cimitero fa capire molte cose. Solo nel 1961, il Colon fu tolto alla Chiesa Cattolica, a seguito dell’operazione Peter Pan, dove fu accusata di appoggiare gli esuli di Maiami nell’emanazione di una falsa legge sulla sottrazione di paternità che fece fuggire in pochi giorni 14.000 persone. Ma, girando tra le tombe e intervistando il personale, si legge la storia di un luogo dove l’ideologia ufficiale non ha osato contrastare le fedi. I segni religiosi si sono depositati senza interruzione temporale. Mi dice un custode anziano, che siede sotto le foto del Che e di Fidel, "Lo Stato non ha voluto toccare le credenze piu’ profonde. Era un campo minato. Anche nel periodo delle campagne contro le Chiese e la Santeria, qui usi e costumi sono rimasti dormienti, pronti a riemergere nelle epoche di rinnovata apertura. Forse è questo il segreto del Socialismo Tropicale, che a differenza che nell’est Europeo ha scelto di non soffocare le radici culturali e le credenze del popolo". In qualche modo, questa osservazione mi è parsa sostenere la speranza di molti cubani, che ritengono che a Cuba una transizione dolce sia più possibile che altrove perchè la Rivoluzione è stata un superamento politico/sociale del passato, ma non un taglio netto con le tradizioni e le culture locali. Anche se alcuni – come l’ascensorista Boris – fanno notare che "non sono le culture a scegliere i regimi" e si chiedono "lo Stato è preparato ad affrontare un passaggio al mercato, ancorchè governato? Che ne sarà se nelle tante imprese miste il capitale pubblico sarà venduto di colpo al migliore offerente? Di chi diventerà Cuba?".
Mi sembra di andarmene con poche risposte e tante domande. Le stesse dei tanti ‘turisti consapevoli’ che ho incontrato all’Avana, tutti venuti sperando di vivere le feste dell’ottantesimo compleanno e cercare di capire "se la Rivoluzione riuscirà a sopravvivere". Mi sento di avere più simpatia per questo paese di quando sono venuto. E più speranze nel suo futuro. Le mie speranze di ancorano ad un’immagine: le vecchie Cadillac, le Pontiac anni ’50 che corrono per il Malecon al tramonto, nell’ultima mia serata. L’Avana ha poche auto e un odore di inquinamento superiore alle città europee più trafficate. Ma quei dinosauri del trasporto, come i ‘cammelli’ (camion a rimorchio divenuti bus) o i televisori sovietici degli anni ’60 ancora in funzione, non sono un simbolo del passato, sono una speranza di futuro. La cifra di un popolo che non ha ancora ceduto ai peggiori demoni della società del consumo; che ricicla, che aggiusta, che non butta nulla.
"Fino a quando...?" è scritto ambiguamente sulla maglietta che si è fatto fare Vladimir, un giovane giornalista cubano. "Fino a quando, cosa?" gli chiedo. "Le file, la fame, il regime, la necessità di essere creativi per sopravvivere" mi risponde, guidando la sua auto scassata verso l’aeroporto.
Dal vetro, mi colpisce un cartello, uno nuovo, mai visto prima. Corona una fabbrica e recita: "Non ci sono imprese impossibili. Al massimo ci sono uomini inadeguati".

 
 
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Giovanni Allegretti