Francesco Frieri (Assessore al Bilancio del Comune di Modena)
Giovanni Allegretti (ricercatore presso il Centro di Studi Sociali dell’Universita’ di Coimbra, Portogallo; membro del Direttivo della Rete del Nuovo Municipio)
Il Consiglio dei Ministri ha appena approvato un disegno di legge delega per tagliare i cosiddetti "costi della politica";. Il provvedimento propone un taglio tra il venti e il trenta per cento di Giunte e Consigli di ogni livello, una sensibile riduzione dei parlamentari e un quasi dimezzamento del Governo. A questo si soma una riduzione drastica dei consigli di amministrazione delle società partecipate dal settore pubblico, il divieto per le stesse di trasferire denaro agli enti controllanti o a partito politici, ed una stretta sulle pletore di consulenti a supporto dei vari organi. Sui media, il provvedimento ha riscosso unanimi apprezzamenti e poche critiche di merito: del resto, un ‘taglio’ generalizzato alla politica è quanto di meglio l’immaginario del Bar Sport concepisca. Sarebbe utile chiedersi se la popolarità guadagnata dal Ministro che ha proposto un simile approccio sia il plauso ad un atto eroico, oppure la meccanica risposta (la piu’ banale possibile) ad un processo storico e politico di degrado istituzionale per cui si riescono ad immaginare poche alternative risolutive.
Sovviene un pensiero di Voltaire che suona pressapoco così: "nessuno aveva nulla da obiettare sui privilegi dei nobili in Francia fino quando essi assicuravano un governo alla nazione";. Se prendessimo a riferimento tale chiave di lettura, potremmo chiederci se i privilegiati di cui si colpiscono le attuali carrozze blu abbiano smesso di assicurare un governo alla nazione. Autorevoli studi dimostrano come ciò sia avvenuto dagli anni ottanta per il parlamento e dagli anni novanta per gli enti locali. Aule di eletti che spesso lamentano svuotamenti di potere, e frustrazioni di inutilità. Ma a chi e’ stato ceduto il potere che i rappresentanti lamentano di non avere piu’? La risposta sta nella stessa dichiarazione del ministro Santagata, quando (subito dopo gli organi della democrazia rappresentativa) individua gli ulteriori bersagli dei tagli nei consigli di amministrazione di società di diritto privato, nonché consulenti e tecnici. Una categoria in rapida crescita che sovente proviene dallo stesso mondo della politica "professionale"; e serve a mantenere ex-eletti in cerca di una nuova collocazione. Grazie alla protezione offerta da un sistema politico sovente autoreferenziale, piu’ interessato ad autoperpetuarsi che a recuperare il proprio prestigio amministrando il territorio con equita’ e trasparenza.
Credendo nell’attualità di Voltaire, parrebbe che non solo la democrazia rappresentativa non abbia assicurato un governo, ma anche che abbia delegato una parte non piccola delle sue funzioni, delle sue inefficienze e dei suoi privilegi, a soggetti non eletti dai cittadini. Dietro la scure che taglia "l’auto blu"; viene colpita la funzione della democrazia, viene rimproverata al governo inutilità? Se si accetta tale interpretazione, un provvedimento generale come questo taglia tutto - indifferentemente - ma non ricostruisce la funzione da troppo tempo assente. Ha un’utile parte "destruens"; ma non offre contributi costruttivi a rigenerare la politica, al massimo esacerbera’ le lotte intensine per accapparrarsi i pochi posti disponibili. Del resto, anche la recente proposta referendaria è inquadrabile in un contesto di sfiducia verso una capacità di riforma della classe politica.
La crisi della democrazia rappresentativa non riguarda solo l’Italia. Da tempo molte città nei due emisferi del pianeta si misurano con teorie ed esperienze di democrazia partecipativa proprio per tentare di invertire il segno delle trasformazioni. In vari paesi scandinavi, dove i partiti non raccolgono piu’ interesse tra i giovani, e la classe politica invecchia senza speranze, sono stati varati ampi programmi di ridinamizzazione della democrazia, sostenuti da Governo e Associazioni di Enti Locali. La presenza di tecnici e istituzioni nelle arene di discussione pubblica e’ retribuita, perche’ la promozione della democrazia partecipativa non appare come un costo a corto termine, ma come una missione pedagogica da valutare nel lungo termine. E si moltiplicano nelle scuole i percorsi di pianificazione partecipata con i giovani, i programmi di educazione civica centrati sull’"imparare facendo";. I risultati danno ottimismo, poiche’ dimostrando una capacita’ dei cittadini di comprendere la complessita’ del governare e costruire solidarieta’.
Laddove diritti e doveri di cittadinanza sono concepiti in stretta relazione con il volume della spesa pubblica e la dimensione del welfare state, i tentativi di innovare la democrazia avvicinando agli abitanti il governo della cosa pubblica sono nati prima dove la cittadinanza era debole, poi si sono diffusi dove essa era in decadenza. A tal punto che perfino il prematuramente defunto trattato costituzionale europeo prevedeva accanto ad un articolo che declamava il fondamento della democrazia rappresentativa, un secondo articolo dedicato alla democrazia partecipativa. I Bilanci Partecipativi sono oggi uno strumento diffuso in oltre 1200 citta’ dove la co-responsabilizzazione civica, il ravvivamento della fiducia nelle istituzioni e i problemi della spesa pubblica vengono affrontati insieme. La settimana scorsa, la nuova Ministra degli Enti Locali inglese ne ha proposto l’adozione a scala nazionale per garantire una piu’ equa ed efficace distribuzione delle risorse ai territori locali. Molti esperimentii rafforzano altri strumenti, più o meno strutturati, di decisione popolare assieme agli eletti su temi, politiche e progetti.
Da noi, tanti politici reclamano la loro discrezionalita’ decisionale, dietro le false garanzie di una capacita’ (monopolistica) di gestione della complessita’ che solo loro ritengono di possedere al massimo grado, ma che non e’ piu’ provata dai fatti... Nella crisi politica che l’Italia attraversa, perché non pensare di legare assieme le dimensioni delle due democrazie (la rappresentativa e la partecipativa), invece di tagliare banalmente quello che c’é?
Si potrebbe dibattere la possibilita’ di coniare un principio di minima partecipazione immaginando che la dimensione possibile di ogni livello di governo sia legata alla dimensione della partecipazione dal basso? Ad esempio, invece di sopprimere le circoscrizioni, si potrebbe disporre che la presenza di ogni circoscrizione debba essere legittimata dalla partecipazione di almeno un certo numero di abitanti a processi pubblici di scelta, e definirne il numero in rapporto alla popolazione del rispettivo territorio? Dopodiché, se si volesse contrarre il numero dei consiglieri comunali, si potrebbe dire che, dato un livello minimo di membri, eventuali estensioni debbano essere legittimate dalla partecipazione di un certo numero di cittadini. Un numero da individuare come in precedenza. Per le province sarà lo stesso, potendo disporre della facoltà di estendere la dimensione dei propri organi di governo in relazione alla partecipazione nei comuni del territorio. E così via fino alle regioni.
Tutti i livelli di governo decentrati, per riappropriarsi dei privilegi tagliati dovranno recuperare pubblicamente il proprio ruolo, innovando e governando assieme ai cittadini fino, forse, a non cercare più nemmeno i privilegi di prima. Se i tagli proposti dal Governo italiano permettessero di recuperare 500 milioni di euro, allora perché la spesa possa tornare ad espandersi al livello originario, secondo il suddetto principio di partecipazione minima, dovrebbero essere necessari milioni di cittadini partecipanti, che (in tal caso) mai legittimerebbero una ripresa dei costi della politica.
Un ultimo attacco ai governi decentrati avviene sotto forma di erosione delle basi imponibili degli Enti Locali: Ici scontata agli enti ecclesiastici, alle Onlus, alle famiglie numerose, e poi una generica riduzione uguale per tutti, abitazioni di pregio e case popolari. Ma anche provvedimenti che hanno colpito l’imposta sulla pubblicità, finanziarie che hanno inibito l’uso delle addizionali all’Irpef. Tutti questi provvedimenti segnano la competizione del Governo centrale con quelli locali, dove il primo limita le fonti di prelievo fiscale dei secondi finendo poer contribuire alla demolizione della politica locale. Nei paesi scandinavi sovente i governi locali hanno come fonte di finanziamento le imposte sulle persone fisiche. Da noi, si invitano i Comuni a pianificare la cementificazione del proprio territorio per aumentare i propri proventi derivanti da ICI e oneri di urbanizzazione e poter mantenere un minimo di condizioni di servizio alla persona. Siamo sicuri che questa strada porti da qualche parte? Che non contrasti abissalmente con le generiche affermazioni di ricerca di sostenibilita’ di cui imbellettiamo leggi e politiche? Perche’ non dailogare direttamente con i cittadini su come gestire la relazione tra risorse fiscali e difesa del territorio?
Supponiamo si giudichi eccessiva la pressione fiscale dei livelli locali, il principio di minima partecipazione potrebbe essere applicato anche in questo caso. La norma potrebbe così recitare: le aliquote delle imposte locali possono essere ampliate del 10 per cento se partecipa almeno un certo numero di cittadini a progetti di destinazione delle stesse risorse. In generale, dati "n"; livelli di governo, ognuno di essi può vedere accresciuto un margine di autonomia quanto più riesce a generare consenso coi cittadini o con i livelli di governo inferiori. Un principio romantico, ma molto concreto che, una volta tradotto in norma, potrebbe garantirebbe autonomia, responsabilità diffusa, ma soprattutto governi democratici nei territori. Ed una rinnovata fiducia dei cittadini nella politica. Puo’ valere la pena tentare?